Sono trascorsi pochi giorni dalla grande manifestazione mondiale contro i cambiamenti climatici e già il tema comincia a scomparire dalle prime pagine dei giornali. E’ sempre bello vedere le piazze gremite di gente che chiede di partecipare alle decisioni politiche che riguardano il proprio futuro e credo che una mobilitazione continua e fattiva sarebbe auspicabile.
L’ambientalismo cambia, si evolve, così come nel tempo è cambiata la percezione del mondo che ci circonda.
È ormai passato quasi un secolo da quando, nel 1922, è stato istituito il Parco Nazionale D’Abruzzo, forse il primo esempio in Italia – e tra i primi nel mondo – di intervento sostanziale a tutela dell’ambiente. L’ambientalismo, quindi, visto come difesa fisica della natura contro l’ingerenza umana, difesa della flora e della fauna dall’espansione delle città e delle infrastrutture, dello sfruttamento del suolo a scopi lucrativi o residenziali, del disboscamento per l’espansione dell’agricoltura o la produzione di combustibile legnoso. Una natura quindi statica, da preservare per la sua biodiversità e per la sua intrinseca bellezza.
L’ambientalismo, nel secondo dopoguerra, ha poi seguito vari filoni ispirati dal movimentismo del momento restando per un lungo periodo però legato allo stesso concetto di natura “cartolina”, percepita attraverso i sensi più che dalla ragione. Salvare le balene dalla pesca d’altura o gli uccelli di passo dalle mattanze dei cacciatori, fermare la cementificazione delle spiagge o l’invasione delle colline dalle pale eoliche, no agli inceneritori e alle discariche, etc.
Oggi la coscienza ambientale è cambiata. Si è capito che il nuovo nemico dell’ambiente è subdolo, microscopico o addirittura invisibile. Si può chiamare anidride carbonica, microplastica, antibiotici, nitrati, metalli pesanti, e a produrli e immetterli nell’ambiente siamo tutti noi direttamente o indirettamente, spesso anche inconsapevolmente. Per questo la sfida di tutti noi – una sfida non solo ambientalista -è oggi più difficile e necessita di molte più competenze e impegno. Si prende finalmente consapevolezza che le balene e i pesci muoiono a causa dell’inquinamento degli oceani da plastica, che gli uccelli cambiano abitudini a causa dell’attività antropica e per l’inquinamento, che l’eccesso di consumo di carne non fa male solo alla nostra salute ma anche alla natura, che molte spiagge spariranno per l’innalzamento delle maree dovute al global warming, che quella pala eolica sulla collina non è così brutta perché è una risposta all’uso dei combustibili fossili, che l’impianto di compostaggio nel nostro back yard aiuta a restituire correttamente carbonio alla terra impoverita. Abbiamo capito che tutti noi liberiamo microplastiche nell’ambiente insieme agli scarichi del nostro bucato, che bruciare la legna nel caminetto è romantico ma non ambientalmente corretto, che per dar da mangiare a una popolazione in continua crescita c’è bisogno di una nuova cultura agricola (e alimentare).
Intanto la politica nazionale e internazionale cosa fa? Si potrebbe usare una frase di Don Raffaele, nella nota canzone di De Andrè: si costerna, si indigna, si impegna, poi getta la spugna con gran dignità. Si, perché questa è la triste risposta, ogni decisione rischia di rimanere invischiata nella logica commerciale del minor prezzo, nel ricatto trumpiano negazionista, nel pragmatico bilancio costi/benefici. Si rimandano soluzioni impegnative in attesa di tempi migliori, senza immaginare che i tempi migliori forse sono già alle nostre spalle. Paesi lungimiranti investono gli utili economici della devastazione ambientale nelle nuove tecnologie,mentre politiche miopi e conservatoristiche fanno perdere all’Europa e all’occidente il ruolo di leadership nella lotta per un futuro migliore.
Essere ambientalista negli anni 2000 è un impegno necessario per tutti, nella nostra piccola o grande attività quotidiana, un impegno che non sarà gratuito né in termini economici né di partecipazione attiva con l’esempio, la dedizione e la consapevolezza. E in questo scenario è inevitabile che i player principali saranno ancora le grandi industrie, spesso le stesse che hanno alimentato la cosiddetta economia lineare ovvero l’opposto dell’economia circolare, a cui noi tutti dovremo contrapporre un consumo consapevole e qualche sacrificio. Si tratta ora di scalare un monte fatto di abitudini e di un retaggio culturale non più accettabile: i ragazzi ci hanno detto chiaramente di essere pronti col cuore ma non hanno competenze né potere decisionale. Tocca a noi affiancarli da “buoni capaci e realmente responsabili ” padri di questa unica grande famiglia.