Idrogeno verde e idrogeno blu, facciamo chiarezza

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(Fonte: brunoleoni.it, Carlo Stagnaro, 12/11/2020)
Nella strategia italiana sull’idrogeno ci sarà spazio solo per quello verde: è una scelta saggia?

Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli ha detto al Senato che, nella strategia italiana sull’idrogeno, ci sarà spazio solo per quello verde (cioè da rinnovabili) e non per quello blu (di origine fossile con cattura della CO2). È una scelta saggia? Vediamo.

Premessa 1: l’idrogeno può sostituire i combustibili fossili in diversi utilizzi finali (tra cui vari processi industriali gas-intensive, trasporti e usi civili), in forma pura o in blending col metano.

Premessa 2: Purtroppo, con le tecnologie attuali l’idrogeno è scarsamente competitivo, anche considerando prezzi della CO, relativamente alti. A livello Ue c’è una forte spinta, quindi si parla giocoforza di incentivi.

Premessa 3.1: Si può produrre idrogeno a partire dalle fonti fossili (separandolo dal carbonio, per esempio nel metano CH4) oppure dall’acqua (separandolo dall’ossigeno H20). In entrambi i casi serve energia. Inoltre, l’idrogeno di fonte fossile ha la CO, come prodotto di scarto.

Premessa 3.2: Per distinguere si usano i colori. A noi interessano l’idrogeno verde (prodotto tramite elettrolisi dell’H20 con energia generata da fonti rinnovabili) e blu (ottenuto dal CH4 con la cattura e stoccaggio della CO2). Entriamo, dunque, nel merito: Patuanelli ha bollato come “greenwashing” l’idrogeno blu, sposando invece la causa dell’idrogeno verde. Sulla base di cosa? Questa è forse la parte più incredibile, ma ci arriviamo dopo. Prima stiamo al merito.

L’idrogeno verde è una splendida idea ma, attualmente e nel futuro prevedibile, ha costi spropositati. Le stesse stime della Commissione Ue mostrano un gap di costo tra l’idrogeno verde e blu notevole (e ancora di più tra l’idrogeno e il gas). Inoltre, la Commissione ritiene che l’idrogeno verde diventerà competitivo (con quello blu) attorno al 2030 (ricordatevi questa data).

Oltre ai costi, c’è da tenere conto del contesto di mercato. In un paese come l’Italia, la priorità delle fonti rinnovabili dovrebbe essere la decarbonizzazione dell’energia elettrica in rete: utilizzarne parte per produrre H2 rischia di “cannibalizzare” questo obiettivo. Tra l’altro, ciò avrebbe un impatto ambientale tutt’altro che ovvio: un MWh di energia rinnovabile immessa in rete spiazza emissioni di CO, probabilmente maggiori rispetto a quanto accade se la stessa energia viene impiegata per produrre H2 verde anziché blu.

Da ultimo, l’Italia è all’avanguardia nelle tecnologie di stoccaggio della CO, e, quindi, si trova nella condizione ideale per investire sullo sviluppo della Ccs/U (carbon capture and sequestration / utilization). La Ccs/U è fondamentale per minimizzare (ancorché non annullare) la CO, derivante dall’utilizzo di combustibili fossili. Potrebbe quindi aiutare ad abbattere le emissioni senza dover sostituire un immenso stock di capitale.

Avrebbe senso mantenere aperte tutte le strade: se incentivo dev’essere, sia per l’idrogeno di qualsiasi colore (al limite non il grigio). Naturalmente l’incentivo può essere differenziato in funzione del contenuto di carbonio.

Patuanelli ha scelto altrimenti. Ha stabilito che l’Italia diventi l’hub dell’idrogeno per l’Eurasia. Alle perplessità espresse dal senatore Paolo Arrigoni, Patuanelli ha replicato esplicitando il criterio con cui ha deciso. Cosa ha risposto il Ministro? Qui viene l’osservazione di metodo, che è per certi versi ancora più importante del merito.

Cito testualmente quanto detto da Patuanelli in una sede istituzionale (fonte v. Staffetta 10/11). Primo: secondo l’a.d. di Enel Francesco Starace, l’H2 verde sarà competitivo in 3-5 anni. È possibile: certamente l’ad dell'(ex) monopolista elettrico ha informazioni affidabili e di prima mano. Nondimeno, è un outlier: il consenso è su un orizzonte più lungo (attorno al 2030, come detto). Domanda: ha senso che un paese affidi la sua strategia su un tema tanto delicato e importante (visto il ruolo che l’idrogeno ha nel Piano energia e clima) a una previsione così tanto, diciamo, ottimistica? Ripeto: è ben possibile che ex post abbia ragione Starace. Ma ex ante ne siamo certi? Se la previsione si rivelasse sbagliata chi ne pagherebbe il costo? E ha senso abbandonare tecnologie alternative sulla base di una simile scommessa?

Secondo punto: è normale o accettabile che il ministro dello Sviluppo economico impegni il Governo su una linea di politica industriale sulla base di “una chiamata fatta ieri” col capo di un’azienda a controllo pubblico? La questione è tanto più grave perché non solo Patuanelli dice di agire sulla base dei suggerimenti di Starace, ma una consigliera di amministrazione dell’Enel, Mariana Mazzucato, è consigliera del presidente del Consiglio Giuseppe Conte sugli stessi temi. Dunque: è Enel a dettare la politica energetica del governo?

La domanda investe anche il M5S, di cui Patuanelli è espressione, visto che si è sempre intestato la battaglia contro i conflitti di interesse. Nel passato ho spesso evidenziato che uno dei problemi del controllo statale sulle imprese è la maggiore capacità di catturare i regolatori, facendo prevalere l’interesse aziendale su quello generale. Non credevo, però, ne avrei visto un esempio tanto chiaro e netto.